mercoledì 24 ottobre 2007

Tu da che parte stai?

Ho scoperto, in questi ultimi mesi di vita del blog, che lo spunto per un post può nascere da qualunque cosa: da chiacchierate tra amici ad un articolo letto ovunque, da un film alla vita di tutti i giorni. Quello di oggi arriva dritto dritto da un episodio di "Curb Your Enthusiasm", andato in onda domenica negli Stati Uniti e da me gustato ieri sera.

Per prima cosa, vorrei sottolineare, che si tratta di una serie televisiva comica. E' una variazione della sitcom classica, e rientra a pieni voti nella definizione di "comedy".

Il soggetto della puntata, trattato ai confini del paradosso, era questo: la moglie, dopo anni di matrimonio, lascia il marito; dato che la relazione era di lungo periodo, gli amici di lui erano diventati anche di lei. In quel momento però questi dovevano fare una scelta: schierarsi con lei o con lui?

Sembrerà una stupidaggine, ma in realtà non è cosa da poco. Va da sé che se il rapporto di coppia è a breve conservazione, i rispettivi amici ritornano alle proprie trincee e chi s'è visto s'è visto. Ma in caso contrario, quando ormai tutti ci si conosce bene da tempo, è giusto perdere, oltre alla persona amata, anche gli amici acquisiti? E' giusto fare tabula rasa di tutto quello che si è costruito negli anni trascorsi insieme?

Esistono purtroppo gelosie innate anche nei confronti degli amici, quelle della serie: "come ti permetti a continuare a frequentare le persone che IO ti ho presentato?". Capisco possa dare fastidio, ma da qui a scatenarci una guerra di rispetto ed orgoglio ce ne passa di follia.

Il ruolo più antipatico è sempre e comunque quello di Giuda, di colui che in un modo o nell'altro ha scelto di stare dalla parte dell'amico acquisito. Una scelta difficile, faticosa, e a volte imbarazzante da sostenere. E senza nemmeno i 30 denari di corrispettivo.

Ma bisogna per forza restare sempre a fianco di chi è storicamente tuo amico, oppure questa è una situazione da scuola elementare e la piena età della coscienza ci dà la possibilità di scegliere?

E tu da che parte stai?

lunedì 22 ottobre 2007

Amarlo non significa cambiarlo

Tempo fa un mio caro amico si era allegramente impegnato una bella ragazza. Lei, di estrazione sociale elevata, ottimi studi alle spalle ed un promettente futuro davanti a sé. Donna in gamba, molto carina (cosa che non ha mai ucciso nessuno) e molto sicura di sé. Tra i suoi numerosi e variegati impegni aveva trovato dello spazio per lui. Lui, facente parte della mia stessa categoria, quelli che non si ammazzano di lavoro, di tempo per lei ne aveva a sufficienza. Inoltre, pur non essendo dello stesso status sociale (e pochi possono dire di esserlo), di buona famiglia benestante.

Insomma, c'erano tutti i presupposti perché la storia potesse funzionare, magari con un finale in tinte di rosa stile Collezione Harmony. Però, c'era un però.

Come molte gentili donzelle che soavemente galleggiano nei nostri pensieri, anche lei aveva un infido obiettivo finale: voleva cambiarlo. Magari inconsciamente, ma voleva farlo. Va da sé la successiva esclamazione: perché?

Innanzitutto, questa è una prerogativa insita nel DNA femminile: non ho mai conosciuto un uomo, per quanto deciso-geloso-dittatoriale, che avesse questa insana voglia di restauro caratteriale della propria compagna. Forse perché l'uomo è contento di ciò che ha trovato? E non deve risistemarlo come vorrebbe veramente egli fosse? E allora in questo caso non sarebbe più facile trovarne direttamente uno, uscito dalla fabbrica degli uomini, con le caratteristiche preferite già di serie?

C'è forse in tutte le donne un istinto da crocerossina che spinge alla mutazione dell'oggetto del desiderio, per salvarlo dal baratro del disordine, delle birre, degli amici e dello sport? Per riportarlo sulla retta via, virtuale ovviamente, per poi magari lamentarsi che non è esattamente più quello del quale si erano innamorate?

E' l'eterna insoddisfazione femminile oppure, in tutte le donne, c'è un istinto materno che scalpita e sbuffa, pronto ad educare meglio, anche della madre naturale, chi gli sta vicino?

mercoledì 17 ottobre 2007

Ma...

Il rapporto di coppia è ormai finito da tempo, nel frattempo qualche specie animale si è pure estinta, e anche se non è una scelta nostra stiamo anche piuttosto bene da soli. Ma dietro l'angolo, furtivo e insidioso, c'è qualche amico che ha deciso: deve combinarci un appuntamento. Nulla di più pericoloso è mai stato concepito dalla mente umana.

Ringraziando per tale preoccupante interesse, la prima domanda che spontaneamente formuliamo fa più o meno così: "Com'è?". Ovviamente il soggetto è colei che, nella fantasia malata di conoscenti pressapoco prossimi, potrebbe diventare la nostra futura sposa. O almeno compagna di mutanda.

Ed ecco che, tra rulli di tamburi e squilli di trombe, entra in scena la peggiore congiunzione della lingua italiana: "ma". Le probabilità che la risposta al nostro giustificatissimo quesito finisca con un "ma" e dei puntini di sospensione è molto alta. E purtroppo sempre in senso peggiorativo.

La candidata ai nostri sogni erotici sarà bellissima e probabilmente simpaticissima "ma" sarà reduce da una storia che l'ha distrutta, oppure avrà già un figlio, oppure coverà in seno la vena dell'isterismo, bene che vada non sarà munita di cervello, odierà tutto ciò che i nostri amici sanno che noi amiamo, la sua provenienza sarà dubbia. La destinazione probabilmente no.

E stiamo parlando di una iscritta alla categoria bellezze. Se così non fosse, il "ma" risulterebbe ancora più inquietante: se una non è bella "ma" è in gamba siamo (e purtroppo per lei, è) già rovinati in partenza. Che lobby sta pressano l'amico per combinare questo incontro? E' forse un'amica della di lui fidanzata?

Il passo successivo è quello che ti invade la testa: che opinione hanno di me se mi fanno conoscere persone così? Sono così allo sbando, alla frutta, al conto? E visto tutto questo, ho ancora voglia di considerli amici e frequentarli?

E soprattutto, quando mi hanno descritto, qual è stato il mio "ma"?

Ma? Mah...

lunedì 15 ottobre 2007

Stalking: se mi lasci ti torturo


Apriamo la settimana con un ottimo post dell'amico Pastafariano (che per togliere ogni dubbio a chiunque, non è il mio alter ego, non siamo la stessa persona come Peter Parker e Spider-Man). Resto in attesa dei vostri sempre puntuali e pungenti commenti.

Voglio farti sapere che ci sono anche se non mi vedi! Voglio vendetta, voglio tenerti sotto assedio.
Telefonate, appostamenti, messaggini, motorini distrutti, sospiri via cavo, inseguimenti. Dopo la separazione la persecuzione, l’accanimento, le incursioni.
Voglio vendetta, voglio tenerti sotto assedio, voglio toglierti il sonno, troverai ovunque le mie tracce, voglio vendetta.

Questo è stalking. Nuovo strumento di tortura che alcuni uomini (tendenza in ascesa) decidono di adottare nei confronti delle ex.
Ne scriviamo non perché vogliamo dividere i lettori e i commentatori del Blog su un’attività comunque esecrabile (che l’ex lo meriti o meno) ma ci piacerebbe raccogliere testimonianze (vere, quindi mitomani zitelle fatevi da parte) su quante hanno avuto la sfortuna di incappare in questa follia ahinoi a volte perfino omicida.

Cosa si prova a vivere nella paura di una ferita che non vuole rimarginarsi ma che si dilata dilaniando tutto: lavoro, vita sociale, vita privata….?
Che sensazione si prova quando squilla il cellulare e il primo pensiero è: sarà sicuramente lui e così è ma voi non volete rispondere e intanto il drinn drinn sembra non voglia finire mai?
State tornando a casa dopo una bella serata passata tra amici, girate l’angolo e vi trovate l’ex sotto casa…che fate?
Avete conosciuto una persona nuova, questa persona vi piace. Glielo dite che il vostro ex vi sta tormentando? Altrimenti come giustificate i vostri repentini cambi d’umore?

Insomma donne parlate! Testimoniate, non denunciate. In Italia tanto non è reato. Ma non stupiamoci. Fino gli anni venti del secolo scorso in Italia era ammesso e pertanto non punito il delitto d’onore: l’uomo poteva compiere uxoricidio se il suo onore veniva macchiato. Medioevo.

mercoledì 10 ottobre 2007

Il peso dell'ex

Se non abbiamo dodici anni e nemmeno il nostro compagno/a li ha, alle nostre spalle c'è sempre profumo di ex. Il che è anche una fortuna, se non altro per non entrare a far parte della categoria dei disadattati senza nemmeno dover presentare il modulo di iscrizione.

Ma gli ex che tutti ci portiamo appresso, chi più numerosi chi meno, quanto pesano nel nostro presente rapporto di coppia? Lo inquinano oppure lo rendono migliore?

La nostra nuova conquista inevitabilmente odierà (e se non di odio, si parla almeno di un malcelato fastidio) l'ex compagna, e lo farà in modo inversamente proporzionale al tempo trascorso dalla fine della storia con la donna precedente: meno tempo è trascorso = più la odio. Senza pensare che invece dovrebbe ringraziarla per aver lasciato libero l'oggetto del desiderio.

Sono tuttavia comprensibili, con diverse gradazioni e senza ordine di importanza: il pensiero di un inevitabile paragone tra il vecchio e il nuovo, il timore di essere una toppa per coprire maldestramente un buco interiore, il non essere altro che "rebound sex", l'angoscia che il ritorno di fiamma sia lì pronto dietro l'angolo.

Anche se ci sentiamo tutti un po' cavalieri pronti a salvare la principessa dall'orco cattivo, o in alternativa, dei Jim Morrison de noantri pronti ad espugnare la nostra piccola ribelle dal rag. Fantozzi di turno, parlare male dell'ex non è esattamente cosa di buon gusto. Per due valide ragioni: prima di tutto, se si dà un valore alle cose solo nominandole, figuriamoci parlandone e sparlandone; in seconda battuta, se la nostra idea è quella di accompagnarci a qualcuno munito di lume della ragione, magari la testa ce l'aveva già in dotazione prima del nostro incontro.

Certo è che se il diretto interessato ne parla male, possiamo sentirci autorizzati a farlo anche noi, ma in piccole dosi e possibilmente lontano dai pasti. L'autorizzazione allo sproloquio è valida anche per quegli ex che, imperturbabili a qualunque variazione sentimentale, continuano ad essere presenti sempre e comunque.

Sulla bilancia emotiva il peso dell'ex si individua anche con un'altra unità di misura: quanta parte di chi ci sta a fianco è il retaggio di un amore precedente? E' forse questo che ci fa gridare in silenzio, dentro a noi, il fastidio amplificato per l'ex della persona che desideriamo sia solo nostra?

martedì 9 ottobre 2007

Missing in love

Restiamo anche oggi in tema di separazione, parlando di quelli che dopo un "ciao" confuso, chiudono il rapporto sparendo totalmente dalla faccia della terra. Senza dare una spiegazione e nemmeno una giustificazione scritta da uno dei genitori.

Questi personaggi da "Chi l'ha visto?" non rispondono alle telefonate, alle email o agli sms, e nemmeno agli insulti. Come sono arrivati così se ne vanno. Non hanno il tempo e forse il coraggio di stare a parlare con chi hanno ferito. Che resta lì, con la faccia a forma di punto interrogativo. E con gli occhi a perlustrare ogni spazio della città, con il batticuore ad ogni persona che di spalle assomiglia al latitante, con le scarpe consumate nella speranza di un incrocio fortuito.

Se è vero che una volta lasciato, un essere umano normale ha bisogno dei suoi tempi per elaborare il lutto e durante quel periodo è meglio non si ritrovi faccia a faccia con il suo ex, due parole di commiato sarebbero per lo meno dovute. Farsi strappare di mano un giallo poche pagine prima del finale non è mai bello, figurarsi farsi strappare il libro del proprio cuore e vederci negata la possibilità di leggere la pagina seguente.

Riuscire a capire il perché qualcosa non ha funzionato è quello che ci dovrebbe far crescere, far sì che al prossimo rapporto gli errori non siano gli stessi. Ovviamente ce ne saranno degli altri, ma questo fa parte del gioco. Ma se il nostro partner sparisce come un missile terra-aria dalla nostra vista, chi ci spiega cos'è che si è guastato? Dobbiamo imparare a fare bricolage con le mezze parole buttate là, spesso a caso e intrise di opinioni non richieste, dagli amici comuni?

La sparizione in stile David Copperfield, che crea uno stupefacente senso di vuoto, può essere catalogata come il tentativo di non tagliuzzare più l'anima della vittima imponendo la propria presenza? Oppure è solamente una forma di codardia con i vestiti di una buona azione?

lunedì 8 ottobre 2007

To Win the Break-Up

Dopo il piccolo diario di bordo della giornata milanese, torniamo alle nostre elucubrazioni, ai nostri punti di domanda. E come si può facilmente dedurre dal titolo, parliamo di separazione.

Vincere il periodo di separazione è una frase, in verità un po' fosca, a doppia interpretazione: la prima, ed anche la più banale, parla di sopravvivenza allo scioglimento del rapporto di coppia; la seconda, più curiosa, mette in campo i due elementi che formavano la coppia e osserva chi ne esce meglio, cioè vincitore.

Partiamo dal presupposto che la fine della coppia non abbia portato con sé alcun bastimento carico di rancori da sfasciarsi sulla schiena a vicenda. Insomma, un momento quasi razionale in cui le voci non si alzano e le mani non si mettono a parlare. Inoltre, se stiamo parlando di esseri umani è probabile che un po' di tristezza si nasconda tra le pieghe dei due cuori perduti.

La prima regola del manuale dell'afflitto per amore è di non far intuire alla controparte la portata del proprio dolore. Questa regola, usualmente, scatena una serie di reazioni in puro stile "domino": i due giocatori, perché ormai è in questo che si sono trasformati, non perdono occasione di dimostrare che stanno bene. Anzi, meglio dell'altro.

Che sia un episodio di qualche fiction di ultima categoria, di una soap-opera doppiata male, lo si intuisce dalla recitazione esageratamente sopra le righe del protagonista. Un protagonista che fino a ieri era parte integrante della nostra vita e si presuppone che in parte lo si conosca. E conoscendolo lo si percepisce "fuori personaggio".

In questo periodo di lotta, e per qualcuno addirittura di guerra, appaiono spesso in veloci comparsate, amori estemporanei, amici improbabili, scelte di vita improponibili.

C'è un unico modo per terminare questo match con la coppa in mano: l'avversario deve ammettere di aver bluffato confessando quello che non si dice. Il premio finale è una buona dose di autostima per la propria anima.

Poi, improvvisamente, tutto tornerà alla normalità.